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La fine di un ciclo, che ha avuto un inizio relativamente preciso, è l’inizio di un nuovo ciclo, le cui condizioni sono tutte da scoprire, da sperimentare. Quando Giovanni, nell’Apocalisse 22,13, fa dire al suo Cristo: “Il sono il Primo e l’Ultimo, l’Alfa e l’Omega, l’Inizio e la Fine, l’Origine e il Punto d’arrivo”, doveva in qualche modo aver capito che in natura esiste una sorta di “finalismo”, di “ricapitolazione intelligente delle cose”. Non era, la sua, l’esagerazione di un visionario, la boutade di un mistico. Questo processo, infatti, lo si riscontra nella vita in generale, nell’esistenza delle cose, nel corso dei processi storici… La cosa su cui bisognerebbe riflettere è piuttosto un’altra, e cioè perché il mondo animale non ha consapevolezza di questo finalismo? Se il processo è così importante, così universale, perché solo l’essere umano lo percepisce chiaramente o comunque è in grado di intuirlo? E’ come se tra l’alfa e l’omega vi fosse qualcosa di così peculiare da non essere percepito dal mondo animale. Gli animali vivono il processo in maniera irriflessa, istintiva, non consapevole, come un aspetto intrinseco alla natura, da accettare alla stregua di un dato di fatto. Perché invece questo processo è per l’essere umano così peculiare, così caratteristico? Il motivo forse risiede nel fatto che nello spazio intermedio che separa l’inizio dalla fine, l’essere umano si gioca tutte le possibili forme della propria libertà. Cioè all’essere umano è stata data la facoltà di scelta e quindi la consapevolezza di dover fare la scelta migliore, quella più conforme alla sua natura originaria. La parte istintuale, nell’essere umano, non poteva essere così preponderante da indurlo a non doversi porre il problema di una scelta. Ecco perché è giusto dire che nel momento in cui nasce, l’essere umano va educato a scegliere il meglio. L’agire d’istinto può non essere conforme alla sua natura. Spesso il prezzo che si paga a causa della propria istintività è molto alto. E’ certo un prezzo che aiuta a crescere, a capire il valore dell’educazione, a non ripetere gli errori, ma altrettanto spesso ci diciamo che sarebbe stato meglio aver evitato, sin dall’inizio, un’esistenza basata prevalentemente sull’istinto. Vivendo d’istinto, gli animali pensano soprattutto alla propria sopravvivenza, per quanto la natura li abbia dotati dell’intelligenza di capire che il bisogno di sopravvivere è reciproco, anzi multilaterale, per cui la fine di una specie rischia fatalmente di compromettere l’esistenza di altre specie. Gli animali sanno istintivamente ciò che l’uomo deve apprendere con l’educazione, e cioè che nel mondo tutto è interconnesso, tutto è interdipendente. Se l’essere umano non riesce a capire questa legge, la sua fine sarà inevitabile, poiché questa è una legge di natura, cui non ci si può sottrarre. Si può soltanto viverla in maniera istintiva, come il mondo animale, oppure in maniera consapevole. Vivere questa legge in maniera consapevole potrebbe p.es. voler dire essere capaci di altruismo, di gesti di generosità, cioè essere capaci di non pensare anzitutto alla propria sopravvivenza. L’essere umano è l’unico animale in grado di capire che per salvaguardare le leggi di natura può essere necessario sacrificarsi. Sacrificare se stessi nella convinzione di procurare un bene agli altri: queste sono azioni encomiabili, che vanno rispettate, anche quando i risultati concretamente non si vedono. Solo il tempo può decidere se una determinata azione era stata compiuta con lungimiranza e rettitudine. La storia è piena di esaltati che nel momento in cui s’immolavano credevano di fare il bene dell’umanità. Questa è una caratteristica tipica dell’essere umano, del tutto sconosciuta al mondo animale: fare del sacrificio di sé un vanto personale, un motivo d’orgoglio, un’occasione di rivalsa ideologica. L’autosacrificio come arma per condannare gli altri. E più gli altri si sentono condannati e meno capiscono il valore di quel sacrificio. Un sacrificio che non dà speranza, non vale nulla. Almeno nel mondo animale ci si sacrifica per difendere la prole o, al massimo, un territorio. LA CONCEZIONE DELLA MORTE La morte ha qualcosa di paradossale: pur essendo uno dei momenti più significativi nella vita di una persona, perché la conclude e perché intorno ad essa il pensiero ha elaborato riflessioni e rappresentazioni a non finire, non è traducibile in alcuna esperienza. Ai fini di un’esperienza di vita è, in tal senso, molto più importante il dolore, anche perché di questo noi possiamo conservare un ricordo, che poi può servirci per sopportare meglio il dolore la volta successiva. Il dolore ci fortifica, la morte ci distrugge o, se vogliamo, ci libera dal peso di un dolore insopportabile, vero o immaginario che sia, sempre che la morte sia per così dire “naturale” e non ci colga di sorpresa. Noi possiamo avere esperienza solo della morte altrui, che ci addolora in misura proporzionale ai sentimenti provati per quella persona in vita. Il motivo per cui non riusciamo ad accettare la morte è dovuto al fatto che per istinto rifiutiamo l’idea che ci venga a mancare una persona amata. Altri motivi sono più astratti: ci chiediamo p.es. che senso abbia la morte di un bambino o la morte di un adulto che dalla vita non ha ottenuto che dolori. Ma una vita che abbia condotto un’esistenza normale, di regola avverte la morte come un fenomeno naturale, che pone fine a una vita che si sta logorando. E’ proprio la consapevolezza di veder deperire fisicamente il corpo che induce a vedere la morte come una soluzione liberatoria. Anzi, si potrebbe dire che si avverte la fine come prossima quando la vita in generale, il suo trascorrere nel tempo, le forme in cui essa si manifesta non risultano più idonee a proseguirla e vengono in sostanza percepite, o meglio, sentite, come un peso insopportabile. Il corpo è un involucro soggetto a decomporsi: quando si comincia ad avere consapevolezza di questo, si comincia anche a desiderare di vivere una nuova condizione. Questo processo evolutivo può essere tranquillamente applicato alla storia di tutte le civiltà. E’ proprio il concetto di tempo, la percezione del suo trascorrere, che ci mette in condizioni di comprendere se determinate forme di esistenza possono essere considerate irreversibilmente superate o no. Non c’è modo di stabilire a priori, se non in maniera molto vaga e astratta, quando avverrà la transizione da una forma di vita a un’altra. Il problema vero infatti non è tanto quello di sapere il momento esatto, quanto piuttosto quello di attrezzarsi per affrontare quel momento in maniera adeguata. Bisogna cioè fare in modo che il processo avvenga nella maniera più naturale possibile, nel rispetto dei tempi che ci sono dati di vivere: le transizioni sono sempre dolorose, poiché costituiscono una rottura col passato e l’ingresso in una condizione d’esistenza del tutto nuova, in cui inizialmente ci si muove come principianti. Diciamo che, in generale, quanto più si è capaci di agire in maniera responsabile, accollandosi le fatiche della transizione, tanto meno drammatico sarà il suo esito. Si tratta di compiere un lavoro personale e collettivo, poiché l’essere soggetti a una parabola evolutiva è un destino comune a ogni essere umano e a ogni civiltà. Qualunque anticipazione arbitraria della nostra fine o della fine di una civiltà è indice sicuro di alienazione. Chi fa della morte il significato della propria vita in realtà è già morto. Non si può attribuire alla morte un significato più grande di quello che si deve attribuire alla vita, appunto perché della morte noi non possiamo avere alcuna vera esperienza. Le correnti di pensiero filosofiche e teologiche che preferiscono considerare l’attimo della morte più importante della prosaicità della vita quotidiana, generalmente vengono annoverate nel filone dell’irrazionalismo. Le civiltà che smettono di credere nei valori umani concludono la loro esistenza nella maniera più tragica possibile: distruggendo altre civiltà e in sostanza autodistruggendosi. L’IDEA DI MORTE Se la morte di un essere umano fosse qualcosa di assolutamente sconvolgente, le sue conseguenze sarebbero irreparabili. Invece la vita continua. Questa stessa espressione generica “la vita continua” la intendiamo in riferimento a quella terrestre; in realtà dovremmo intenderla in riferimento alla vita in generale, quella, per intendersi, dell’universo, di cui la terra è parte e di cui, in fondo, gli esseri umani sanno ancora molto poco. “La vita continua” è un’espressione metafisica, che va al di là dell’apparenza. La vita continua “per tutti” – così andrebbe interpretata. Cioè la vita è un concetto che include la morte e che caratterizza l’intero universo. La morte, dunque, è solo trasformazione. La morte fa parte della vita, nel senso che ne è un aspetto fondamentale, imprescindibile. La morte dà addirittura significato alla vita, poiché una vita senza morte non sarebbe umana o terrestre, non apparterrebbe neppure all’universo. Nell’universo infatti tutto ha un inizio e una fine. Combattere la morte o ritardarla artificialmente significa andare contro la vita, e quindi vivere nell’illusione, al di fuori della realtà. Voler vivere a tutti i costi è non meno innaturale che voler morire a tutti i costi. Voler vivere da eroi è non meno alienante che voler morire da martiri. La vita e la morte sono aspetti naturali che andrebbero vissuti in maniera naturale, secondo le leggi della natura. E nella natura la morte, in realtà, non esiste se non come forma di passaggio. La morte è l’anticamera di una nuova vita. Tutto è trasformazione. Vita e morte fanno parte di un immane processo di trasformazione, di cui noi non vediamo né l’inizio né la fine. La consapevolezza di questo dovrebbe portarci a relativizzare le questioni personali, i limiti soggettivi. Ognuno di noi fa parte di una specie particolare e al tempo stesso universale: il genere umano. Ciò che conta in realtà non è né la vita né la morte, ma la dignità dell’essere umano, l’essenza della sua umanità. Vita e morte coincidono quando è in gioco la difesa del valore del senso di umanità. Aver paura della morte, quando è in gioco questo valore, significa non saperlo vivere con coerenza, sino in fondo. L’unica cosa di cui bisogna aver paura è proprio questa incapacità a essere naturali, a vivere con naturalezza la propria umanità. Tra vita e morte, dal punto di vista fisico, non c’è alcuna differenza: la morte non è che la modalità del passaggio da una forma di vita a un’altra. Essere attaccati a una forma di vita in modo da precludersi l’interesse per l’altra forma è segno di follia. Come d’altra parte il contrario. Disprezzare questa forma terrena di vita in nome di una forma che ancora non si può vivere, è segno d’immaturità. Tutelare il diritto alla vita al punto da negare quello alla morte è indice di visione ideologica delle cose. La vita di per sé non è un valore, ma solo una condizione in cui il valore può essere vissuto. Non si può tutelare una forma a prescindere dal suo contenuto, altrimenti si rischia di fare della forma un contenuto fine a se stesso. Se la vita, come forma, fosse un contenuto, la morte potrebbe anche essere considerata come un contenuto equivalente, anzi alternativo. Vivere o morire sarebbero la stessa cosa, poiché entrambe potrebbero pretendere un’assolutezza esclusiva. Invece, se c’è una forma che non può avere alcun contenuto, questa è proprio la morte. La morte è una forma destinata a rimanere priva di contenuto, una condizione in cui il valore non può essere vissuto in alcun modo. L’unico valore che la morte possiede è quello che noi le attribuiamo in rapporto alla vita. Una qualunque religione che predichi un paradiso nell’aldilà e che quindi ponga una netta demarcazione tra vita e morte, è inevitabilmente contraria all’idea di perenne trasformazione. In ultima istanza è una religione che odia la vita in quanto ama solo una possibilità di vita completamente diversa. Religioni di questo genere finiscono nell’alienazione mentale o restano comunque una forma di filosofia rassegnata. Spesso, per evitare queste forme di alienazione, si finisce col credere che l’unica vita possibile sia quella – carica di contraddizioni antagonistiche – che si vive sulla terra e che la morte (da evitare se non da odiare con tutte le forze) costituisca la fine di tutto. L’alienazione del cattolicesimo si è trasformata, nel protestantesimo, in cinismo. Bibliografia Perfezione e finitudine. La concezione della morte nell’utopia in età moderna e contemporanea, Lindau Melzi Davide, La concezione tradizionale dell’aldilà. Ovvero il senso della vita e della morte secondo le dottrine arcaiche, Terra di Mezzo